Creazioni in vetro soffiato, vetrofusione e gioielli
I Vetri di Sandro Bormioli
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Bottega in Altare (SV), Via Roma n. 41
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Dal Medioevo ad oggi

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Il vetro ad Altare dal Medio Evo ad oggi. Apparecchi e articoli per laboratori chimici, fisici, per farmacie e collezioni.

Maria Badano Brondi e Gino Bormioli

La Vetreria ad Altare ebbe inizio nel dodicesimo secolo con la ripresa commerciale, conseguente a un periodo storico di discreta stabilità nell’Italia del Nord, dopo le scorrerie degli Ungari e dei Saraceni. Nel 1130 i Benedettini dell’isolotto di Bergeggi avevano ottenuto dal Vescovo di Alba Pompeia la conferma dei loro diritti sul territorio di Altare, dove già avevano edificato una chiesa (1). Da quel momento inizia la preistoria della vetreria, su una base leggendaria, che soltanto nel secolo successivo entrerà a pieno titolo nella storia della preindustria con i primi documenti notarili.Il commercio con Genova, per procurare bicchieri , orinali, pinte, vetri rotondi per finestre era già alquanto vivace nella seconda metà del Duecento(2) e si intensificò quando i padri del Comune dovettero ricorrere ai vetrai di Altare per i vetri del Faro, le cui commesse erano precedentemente affidate ai vetrai di Masone. Alcuni maestri, come Lanzarotto Beda nel 1440, impiantarono i loro forni presso la chiesa di S. Giorgio, dopo averne ottenuta l’autorizzazione dai Padri del Comune (3). La caratteristica peculiare della manifattura altarese fu la sua espansione che, dal Trecento, ebbe inizio con le industrie "portatives", come quella di Monte Lecco, presso Voltaggio (4), e in seguito con i trasporti marittimi verso la Siria, la Catalogna, la Provenza per acquistare la soda, nelle regioni costiere italiane, nel Levante e in Spagna per trasportare i prodotti finiti: anfore pisane, bicchieri, amole, boccali, ampolle da chiesa. In alcuni contratti della seconda metà del Trecento, rogati dai notai di Savona, Leonardo Rusca, Antonio Guglielmi, compare una produzione, ad uso degli speziali, di bocerii, ossia di boccette per gli infusi e per le erbe (5). Il riferimento è più specifico negli inventari e negli elenchi di alcuni notai savonesi del XV e XVI secolo, più meticolosi di altri nell’elencare gli oggetti in vendita. Accanto a bicchieri e calici delle più svariate qualità, alle phiale per nave, alle tazze, tazzette, piatti, fiaschi, saliere, ampolle, lampade da nave, da Giudei, alla veneziana, agli scacchi per filatori di seta, alle rotelle per regolare lo stoppino delle lampade e ai molti vetri assortiti omnibus speciebus et manieribus, compare l’indicazione di alcuni articoli di farmochimica. Sono ciati de medicinis, ampolete pro aromatariis ( ampolle ad uso dei farmacisti), ampolete pro profumis, bocerii pro argenti servatici (boccette per mercurio), " ventose" per curare i reumatismi di cui un tipo particolare " modo Siculi", gli orinalia (orinali da esame delle orine), ben distinti dai ciati de orina, ossia da camera da letto (6).Per trasportare via mare questi fragili prodotti - impagliati e racchiusi in contenitori di legno, "gabbie" - i vetrai di Altare usavano per lo più l’accomendacio, ossia affidavano la mercanzia a un trasportatore, il quale entrava in contatto con gli acquirenti, sosteneva i rischi attinenti all’attività di gestione e intascava un quarto dei profitti, mentre il proprietario sosteneva tutti i rischi di perdita del capitale e aveva diritto ai tre quarti dei profitti. La soda veniva pagata sia in vetri lavorati sia in lire, mentre i prodotti in vetro, recapitati negli stati angioini, erano pagati con moneta aurea. Sui tassi di profitto aveva una forte incidenza il trasporto, in quanto i rematori erano liberi cittadini, marinai e non schiavi, i quali pretendevano di essere pagati sulla base delle loro prestazioni, secondo un contratto prestabilito. Nella seconda metà del Quindicesimo secolo, i vetrai incominciarono a pilotare essi stessi le loro imbarcazioni per contenere le spese e ridurre i prezzi. Nella storia del commercio, acquisirono un ruolo particolare, che li vide contemporaneamente produttori e mercanti (7).Nel XVI secolo essi espansero i loro fuochi su tutto il territorio italico (8), sostenuti dall’autorità dei Consoli, che , in numero di sei, venivano eletti ogni anno il giorno di Natale tra gli artieri più abili in campo tecnico e amministrativo. Essi avevano piena ed ampia facoltà di ordinare e regolare l’arte e quindi di accusare e denunciare tutte le persone che contravvenivano alle loro disposizioni (9). Dal loro prestigio dipendeva l’autonomia dei lavoratori, riuniti in una Corporazione, di cui essi sostenevano le libertà nei confronti dei Marchesi del Carretto e dei Signori del Monferrato, subentrati ai Benedettini nella proprietà del territorio. Quando la crisi investì il Mediterraneo e l’inflazione si abbatté sulle classi lavoratrici e sui mercanti, ossia su tutti coloro che direttamente o indirettamente erano presi nelle pericolose correnti della moneta, i vetrai si trovarono privi di risorse e costretti ad emigrare, in gran numero, verso i paesi del Nord Europa. A Nevers, a Liegi, a Orléans, ad Anversa entrarono come dipendenti nelle vetrerie locali, ma costruirono,a loro volta, una rete di manifatture di tale eccellenza da venire insigniti degli stessi titoli nobiliari che il Re di Francia concedeva, all’epoca, ai vetrai francesi di particolare prestigio (10). I vetrai di Altare accesero i loro fuochi a Maastricht, ad Amsterdam, a Colonia, diffondendo l’uso del "cristallino" di Venezia (11). Dalla Manifattura Reale di Orléans, sorta in virtù di uno speciale privilegio del Re Sole, Bernardo Perrotto – nato ad Altare il 26 giugno del 1629 – segnalò all’Accademia delle Scienze la sua scoperta del sistema di colaggio della lastra, il 2 aprile 1687 (12). Il vetro fuso, dopo l’affinaggio, veniva versato dal crogiuolo su una tavola di metallo, bordata di regoli, che fissavano lo spessore e la dimensione della lastra. Allo stato semi-viscoso, veniva laminato da un rullo di rame e, a operazione terminata, spinto in un forno a ricuocere per un raffreddamento progressivo che durava anche più giorni. Prima d’allora le lastre venivano prodotte col sistema a soffio, senza poter mai raggiungere dimensioni superiori al metro quadrato. Il sistema che consentì la produzione di specchi di altezza pari a circa m.2.27, rimase l’unico procedimento industriale sino al 1920, quando i nuovi processi di fusione permisero di rendere continua la colata.Purtroppo accadde che i direttori della Manifattura Reale di Parigi, Abramo Thévard e Francesco Plastrier, si alleassero contro il Perrotto per impossessarsi del suo brevetto. Su richiesta del Plastrier fu fatta una perquisizione nella fabbrica dell’Altarese, cui seguì un processo conclusosi, il 10 marzo 1696, con la piena soddisfazione dei Direttori della Compagnia. Essi soli ebbero il diritto di produrre lastre, mentre al Perrotto, per tacitarlo degli autentici titoli che esibiva come inventore, venne concessa una pensione che avrebbe dovuto pagargli il Plastrier , fissata sulle 800 livres. Il Plastrier era soltanto un presta-nome dietro il quale si nascondevano i rampolli di una nota dinastia vetraia, quella dei Néhou. Luca di Néhou perfezionò questo sistema e trasferì la lavorazione, dalla sua fabbrica di Parigi, a Saint Gobain, che divenne il centro vetrario più famoso d’Europa per la produzione della lastra. L’invenzione passò alla storia sotto il nome di Néhou; ma, attorno al 1890, specialmente per merito H. Havard, che ne studiò le fonti, il procedimento di colata fu rivendicato a Bernardo Perrotto, direttore della vetreria di Orléans (13).Come documenta il Thorpe, la prima vetreria in Bristol fu fondata nel 1651 dalla famiglia Dagna , emigrata da Altare, feudo del Ducato di Mantova. I figli di Edoardo Dagna I si stabilirono a Newcastle, sul Tyne, dove introdussero la lavorazione al piombo, sviluppando lo stile conosciuto come Newcastle. La prima di queste vetrerie, fondata nel 1684 presso Closegate, ottenne una concessione per 999 anni. Accanto alla prima ne sorsero altre tre, di cui due per vetro "flint" e una terza di vetro verde per bottiglie (14). Intanto, nel 1673, l’inglese Giorgio Ravenscroft, per affrancare il mercato britannico dalla dipendenza della vetreria italiana, con l’appoggio della Glass Sellers’ Company, aveva compiuto una serie di esperimenti, nella sua vetreria della Savoy, usando come silicato i ciottoli inglesi, "i flints". Questi vetri avevano la tendenza a screpolarsi internamente e il risultato era una ragnatela di minutissime crepe che rendevano il vetro semi-opaco ed inutilizzabile. Fu a questo punto che il Ravenscroft, entrato nel commercio veneziano e infiltratosi nell’ambiente vetrario, ottenne l’assistenza di due italiani, Vincenzo Rossetto muranese e Giacomo Da Costa altarese (15), i quali ridussero il quantitativo di fondente potassico e aggiunsero un 30% di ossido di piombo alla silice e a una piccola quantità di ossido borico. Il risultato fu un vetro molto elegante, simile al cristallo di rocca, mai anticamente prodotto nel regno inglese, che consentì al Ravenscroft di applicare su ogni esemplare il proprio marchio. Si trattava di un piccolo anello di vetro fuso, del diametro di circa mezzo centimetro, sul quale veniva impresso, come sulla ceralacca, un sigillo recante una minuscola testa di corvo (in inglese "raven") in rilievo.La vetreria di Altare, che non interruppe mai la sua attività, nonostante l’emigrazione dei suoi figli, continuò a produrre articoli di ogni specie, artistici e d’uso comune, per laboratori e farmacie . Fu prioritaria per Altare ed esclusiva della Società Artistico Vetraria la produzione di apparecchi e articoli per laboratori chimici e per farmacia. Sui cataloghi dei primi anni del Novecento si contano più di cento articoli per la farmochimica, tra cui emergono apparecchi complessi di Witt e di Kipp, essiccatori di Fresenius, di Scheibler, di Fruhling, , imbuti di Meyer, bottiglia di Woulff, mescitori di essenze, barili per soluzioni, palloni per distillazione, ipercolatori, alambicchi, storte, provette , vasche per enteroclismi, bicchieri graduati di ogni tipo e dimensione. L’assemblaggio richiedeva un accurato lavoro di smerigliatura per l’incastro dei vari pezzi - che venivano soffiati in tempi successivi dai maestri più abili - per la smerigliatura di tappi, la messa a punto di contagocce e rubinetti. Il reparto smerigliatura era tra i più curati della S.A.V. e vantava nomi di valenti artigiani. Negli anni 1920-30, sotto la direzione tecnica del maestro vetraio Costantino Bormioli, coadiuvato dal capo-reparto smerigliatura Spartano Ciabattoni, vennero apportati sostanziali miglioramenti nell’esecuzione degli articoli, resi più pratici nell’uso e più eleganti nella forma, sino a raggiungere particolari caratteristiche d’arte.In epoca medievale, per divenire membri della Corporazione , occorreva rimanere per quattro anni "tizzatori" e per altri quattro anni ancora apprendisti. Nella Società Artistico Vetraria – prima Cooperativa italiana, nata dal patto sociale del 1856, che riuniva le fornaci dislocate in punti diversi del paese in un unico stabilimento – i figli dei vetrai non derogavano dalle antiche norme e, prima di acquisire la maestranza e di entrare, con solenne cerimonia, nel novero degli associati, dovevano fare tirocinio come subalterni dai quattordici anni sino al compimento del ventunesimo anno d’età, in qualità di garzoni o levatori e imparare l’arte del soffio in tre "piazze" diverse.La produzione di farmo-chimica, che è stata per più di un secolo il fiore all’occhiello della vetreria altarese, era prodotta da alcune " piazze" (16) ed ognuna, secondo l’abilità e la forza fisica dei maestri, era destinata alla esecuzione di specifici articoli.La prima "piazza" era la più prestigiosa ed eseguiva gli articoli più difficili e pesanti fino a 25 chilogrammi di vetro fuso che, spostati sull’estremità della canna da soffio, rappresentavano il massimo quantitativo che un vetraio potesse lavorare. Era composta normalmente da due maestri, un soffiatore ed un apritore, da tre "terzi", da un puntellatore e da due garzoni. Quando si producevano flaconi a bocca stretta e flaconi a bocca larga (poudrié), albanelle, tutti con tappo smerigliato, usati nelle farmacie e barili della capacità dai 5 ai 30 litri, si aggiungeva un secondo soffiatore. L’estrazione dal forno di grandi quantitativi di vetro spettava ai "terzi", che dovevano essere dotati di particolare destrezza e forza fisica.La seconda "piazza" aveva più o meno lo stesso organico della prima e produceva alcuni degli apparecchi di chimica di più modeste dimensioni, flaconi a bocca stretta e larga dai 5 ai 15 litri, ed oggetti di particolare pregio. La "piazza bastarda", cosiddetta poiché non aveva una produzione ben definita, eseguiva i flaconi a bocca larga e stretta, albanelle, dai 750 cc ai 5 litri, vasche per enteroclismi, oltre a molti altri oggetti, anch’essi pregiati. La"piazza" da flaconi completava, in misura minore, la serie dei flaconi, delle albanelle da farmacia, di capacità dai 30 ai 750cc; produceva inoltre "ventose", tiralatte, poppatoi, contagocce, "boccheruole" per l’assunzione dell’ossigeno ed altri articoli di dimensioni ridotte. Le lavorazioni , specialmente nella prima "piazza", erano faticose e richiedevano intelligenza, manualità, precisione per seguire le esatte misure indicate , ma anche un fisico robusto e un’alta statura per sostenere il peso dell’oggetto lavorato. Questo tipo di produzione manuale si protrasse sino al 1975, anche se dal 1954 le macchine automatiche avevano sostituito la maggior parte della produzione a soffio. Particolari apparecchi di chimica, dalle precise misure imposte, non potevano essere prodotti che manualmente.Quando tutti i forni sono stati modificati per la produzione automatica, quindi costruiti sollevati dal piano tradizionale di lavoro, per poter sistemare al di sotto le macchine automatiche,è stato progettato un canale che dal forno portava il vetro in una vasca posta a piano terra, da riempirsi periodicamente. Questo procedimento, ideato nella SAV, ha permesso di continuare la lavorazione manuale fino al 1975.(17)Un catalogo di articoli per laboratorio del 1949 riporta le didascalie anche in inglese e in francese, a testimoniare una diffusione che non copriva soltanto l’area nazionale, ma conservava un carattere internazionale. Dai "Registri dei bilanci" della S.A.V., della prima metà del secolo XX, conservati nell’Istituto per lo Studio del Vetro e dell’Arte vetraria di Altare, si nota come parte della produzione, diretta a circa 370 clienti, fosse riservata al mercato estero.A titolo di esempio, nell’anno 1936, a fronte di un valore della produzione, espresso in moneta attuale di circa 8 miliardi, la farmo-chimica rappresentava con due miliardi di valore, il 25 % circa dell’intera produzione.Riguardo al materiale usato, ossia alla composizione chimica del vetro, non si hanno, per i vetri da laboratorio, speciali esigenze . Non occorre il "cristallino" di Venezia, caratterizzato dalla sua sottigliezza e bianchezza, e neppure il cristallo di Boemia. Il vetro da laboratorio è di regola un vetro sodico–calcico, perfettamente affinato, omogeneo e trasparente. Gli articoli sono di notevole peso e lo spessore delle pareti varia dai due ai quattro millimetri. Il tipo di composizione si diversifica per quei contenitori sottoposti, durante il loro uso, a forti sbalzi termici, come le beute, i matracci, i palloni di distillazione . Se per gli apparecchi usati a temperatura ambiente veniva dunque impiegato il comune vetro bianco sodio- calcico del forno a bacino, per gli articoli sottoposti a forti variazioni di temperatura occorreva un vetro speciale, che di solito veniva fuso appositamente nei crogioli. Si trattava di vetri al boro, normalmente chiamati "borosilicati". Sostituendo parte della SiO2 con B2O3, il vetro diviene più fluido negli intervalli di fusione e di lavorazione, cosicché riesce possibile abbassare il tenore di alcali; contemporaneamente si abbassa considerevolmente anche il coefficiente di dilatazione termica del vetro, del quale risultano aumentate la resistenza chimica e quella termica. A scopo esplicativo, ecco una formula del cosiddetto "neutro", impiegato nei crogioli della S.A.V. :SiO2 76,00B2O3 14,20Al2O3 2,94MgO 1,26Alcali Oss. 5,60
TECNICHE DI LAVORAZIONE DI ALCUNI APPARECCHI DA LABORATORIO.La produzione degli apparecchi da laboratorio, come si è già detto, richiedeva particolare perizia. Il vetro doveva essere distribuito dove era necessario e nella misura dovuta con assoluta precisione in quanto, in alcuni punti dell’apparecchio, venivano smerigliati rubinetti, tappi, ecc.
L’APPARECCHIO DI KIPP.(a)Esteticamente è il più elegante tra quelli fabbricati nella Società Artistico Vetraria. Le tre sfere che lo compongono gli donano una linea particolare. Era prodotto in varie capacità: 250, 500, 1000, 1500, 2000, 3000 cc ed era costituito da due parti, prodotte separatamente.Il maestro soffiatore, ricevuta la levata (18), con gli antichi e tradizionali strumenti modellava l’abbozzo che veniva introdotto nello stampo per la formazione definitiva con il soffio. Terminata la soffiatura, un aiutante porgeva al maestro una piccola porzione di vetro fuso "levato a punta" che, avvolto intorno al collo e modellato con molle concave, formava un "collarino", che rifiniva la bocca.L’apparecchio passava all’apritore, il quale con le "tajante" (cesoie), tagliava una parte di vetro e, con le "nacchere" (19), modellava il piede; mentre l’apritore compiva queste operazioni, un "terzo", con molle speciali, formava le due tubolature che, scaldate all’estremità, venivano attaccate al corpo dell’apparecchio. Di seguito l’apparecchio, staccato dalla canna, era portato nel forno di "ricottura".Il giorno successivo veniva prodotta la sfera superiore che il soffiatore modellava, inserendo in cima ad essa un collarino. L’apritore, attaccando una parte di vetro sulla prominenza inferiore della sfera, con le "molle" tirava il gambo che andava ad inserirsi nella prima parte dell’apparecchio.
RIFINITURA E FREDDO DELL’APPARECCHIO DI KIPP.Dopo la ricottura, gli apparecchi venivano portati nel Reparto Arroteria dove venivano "scalottati" e molati nelle due parti superiori; teminata questa operazione, passavano al Reparto Smerigliatura, dove le parti che dovevano essere smerigliate venivano montate su di un tornio: la parte superiore dentro quella inferiore, il "cannetto" (20) nella strozzatura tra le due sfere ed il tappo nella "tubolatura".L’azione del carborundum e dell’acqua, durante l’operazione di smerigliatura, consentiva alle parti smerigliate di inserirsi perfettamente l’una nell’altra.
L’IMBUTO SEPARATORE.(c)Anche questo apparecchio, prodotto in diverse capacità, era di difficile esecuzione. Il maestro soffiatore, ricevuta la "levata", modellava un complesso abbozzo, che terminava in forma conica. Completata la forma nello stampo, soffiando, attaccava attorno al collo un collarino, quindi passava l’oggetto all’apritore. Nel frattempo, un terzo esperto modellava un gambo con una strozzatura che terminava con un orlo. Scaldato l’orlo, porgeva il gambo all’apritore che lo attaccava al corpo dell’apparecchio. Avvolgeva poi una porzione di vetro nella strozzatura del gambo che modellava a cilindro. Staccato dalla canna , l’apparecchio veniva trasportato nel forno di ricottura.L’imbuto separatore veniva "scalottato" nel Reparto Arroteria; in quello di Smerigliatura gli veniva smerigliato il tappo e, forata la parte cilindrica, smerigliato e inserito anche il rubinetto.
L’ESSICCATORE DI SCHEIBLER.(b)L’essiccatore di Scheibler fu quello maggiormente prodotto in tutte le possibili capacità che andavano dai 100 ai 300 millimetri di diametro. Era dotato di coperchio a pomo o con tubolatura.Il maestro soffiatore, ricevuta la "levata"dal terzo, la lavorava e, distribuendo il vetro dove era necessario, ricavava un abbozzo, che introduceva nello stampo e, soffiando, formava l’essiccatore. Terminata la soffiatura, l’apparecchio veniva puntellato sul fondo, scaldato nella parte superiore e passato all’apritore, il quale, con delle grandi molle, ne modellava la bocca, rivoltandone l’orlo.Dopo la ricottura, in tempera, l’essiccatore veniva portato nel Reparto Arroteria dove veniva spianato, sull’orlo della bocca, nella "piatellina" (21).Gli apparecchi di maggiore dimensione venivano trasportati "in processione" ad uno ad uno, dalle donne del Reparto Arroteria, nel Reparto Smerigliatura. Sul tornio, il bordo della bocca veniva cosparso di una fine pasta abrasiva e, con moto rotatorio, soffregato dal suo stesso coperchio fino ad ottenere una tenuta stagna.
IL COPERCHIO DELL’ESSICCATORE SCHEIBLR.L’esecuzione del coperchio dell’essiccatore era più difficile di quella dell’essiccatore stesso. I coperchi erano di due tipi: a pomo e tubolati, per poter applicare la pompa a vuoto.Il maestro soffiatore, ricevuto l’abbozzo a forma di cipolla scrupolosamente di misura, con una parte di vetro, portato da un aiutante, modellava il pomo. Quando serviva tubolato, soffiando ricavava una palla che, modellata a forma di cilindro, con l’attacco di un collarino, formava la tubolatura.L’abbozzo veniva puntellato sul pomo o sulla tubolatura, scaldato e trasferito all’apritore, il quale, ripiegando una parte dell’abbozzo all’interno, ricavava un bordo di un buon spessore; riscaldato il bordo e imprimendo al puntello un moto rotatorio, il coperchio si allargava. Dopo essere stato temperato veniva spianato sul bordo nel Reparto Arroteria. Il pomo veniva molato o la tubolatura scalottata. Nel Reparto Smerigliatura, ruotando sull’essiccatore, cosparso di pasta abrasiva fine, otteneva la tenuta stagna.
L’ESECUZIONE DI UNA TUBOLATURA.Un terzo, "levata" dal forno una porzione di vetro e "marmorizzata" (22), la scavava con la punta delle molle e soffiando la forava; si otteneva così un manicotto di vetro caldo nel quale il terzo inseriva la spina di speciali molle che, chiuse, ruotando velocemente la canna sulle "bardelle" (23), formavano la tubolatura.
I RUBINETTI IN VETRO.Alcuni rubinetti erano incorporati negli apparecchi da laboratorio; altri, che erano smerigliati nelle tubolature, venivano prodotti da un maestro con tre aiutanti: due di essi producevano il blocco del rubinetto pressando una porzione di vetro nello stampo chiuso a mano, un altro confezionava il gocciolatore. Il maestro, ricevute le due parti, le assemblava.Nel Reparto Smerigliatura il blocco veniva forato con punte di acciaio "vidia", usando per il raffreddamento l’acqua ragia, mentre la spina forata veniva smerigliata.La spina dei rubinetti era prodotta in uno stampo chiuso a mano nel quale era posto uno spinotto. Una parte di vetro veniva pressata nello stampo e lo spinotto veniva estratto velocemente per formare il foro, che nella spina lascia passare il liquido.
REPARTO ARROTERIA.Era il reparto dove venivano rifiniti gli oggetti in vetro, dopo la ricottura. Le operazioni che vi si svolgevano erano molte: la scalottatura per choc termico, la ribruciatura degli oggetti sul "bevante"(bocca), la spianatura e molatura sulle "piatelline", la scannellatura e l’incisione
REPARTO SMERIGLIATURA.In questo reparto, usando abrasivi e montando il tappo su di un tornio, lo si smerigliava per introdurlo nel collo dei flaconi, delle albanelle, dei contagocce, ecc. Gli smerigliatori e le smerigliatrici più bravi rifinivano i grossi flaconi e tutti gli apparecchi da laboratorio, inserendo le varie parti, rubinetti, tappi, ecc.

NOTE.
A. Ferretto, Documenti intorno alle relazioni tra Alba e Genova, in Bibl. della Società Storica Sub. a cura di F. Gabotto, Pinerolo, 1906, XXIII, vol I, doc. I, p.1; F. Noberasco, L’isola di Liguria e la badia di Sant’Eugenio, in "Atti della Società Savonese di Storia Patria", Savona, , 1830, vol.XII, , p.163; C. Varaldo, Il patrimonio terriero dell’Abbazia di S. Eugenio "De Insula Liguria", in "Italia Benedettina",II, Liguria Monastica, Cesena, 1979, p. 315.A.S.G., N. De Porta, 23-4-1288.F. Podestà, Il porto di Genova, Genova, 1913, pp.326-327.S. Fossati, T. Mannoni, Lo scavo della Vetreria Medievale di Monte Lecco, in "Archeologia medievale", II, 1975.A.S.S., L. Rusca, 9-6-1371; 23-2-1375.G. Malandra, I vetrai di Altare, Savona, 1983, p.99.M. Badano Brondi, Storia e tecniche del vetro preindustriale. Dalla Liguria a Newcastle, Genova, 1999, p.31.Cfr. G. Malandra, op.cit.; A Mallarini, L’Arte Vetraria Altarese, Albenga , 1995.Statuta Artis Vitreae Loci Altaris – 15 febbraio 1495 .La pergamena originale si trova nell’Archivio di Stato di Torino, Monferrato, Feudi, mazzo 5, fasc.2.Cfr. A. Boutillier, La Verrerie et les gentilshommes verriers de Nevers, Nevers, 1885; H. Schuermans, Les medailles en verre d’Altare, in "Révue Belge de numismatique, Liegi, 1885; E. Gerspach, L’art de la Verrerie, Parigi, 1885;F. Pholien, La verrerie au pays de Liège, Liegi, 1899; J Barrelet, La verrerie en France de l’époque Gallo-Romaine à nos jours, Parigi, 1953; R. Chambon, L’histoire de la Verrerie en Belgique du IIème siècle à nos jours, Bruxelles, 1955;G.R.Villequey, Verre et verriers de Lorraine, Parigi, 1971; J. Philippe, Histoire et art du verre, Liège, 1982;J.Habets, Venetiaanse glasfabrieken te Maastricht (1640-1700), in "De Maasgouw 6", 1888, p.1012; P. Doppler, Glasblazers te Maastricht in 1667, in "De Maasgouw 41", 1921, p.14; J. Brouwers, Een glasblazerij te Smeermaas (1656), in "Limburg" 49, 1970, p.267; O.Drahotova, L’art du verre in Europe, Parigi, 1983, p.104; J M. Baart, Una vetreria di tradizione italiana ad Amsterdam, in "Archeologia e storia della produzione del vetro preindustriale", a.c. di M. Mendera, Atti del Convegno Internazionale, L’attività vetraria medievale in Valdelsa, Firenze, 1991, pp.423-425.
Histoire de l’Académie Royale des Sciences, Paris, 1733, Tome II, p.20 Ms.Perrot
E.Gerspach, op.cit., p.213; H. Havard, Dictionnaire de l’ameublement et de la décoration, Paris, 1890, T. IV, col.1561; E. Fremy, Histoire de la manifacture royale des glaces de France, Paris, 1909, p.262; P.M.Bondois, Les Verreries nivernaise et orlèanaise au XVII siècle – Jean Castellan et Bernard Perrot, Paris, 1932, pp.2-7; L. Zecchin, Bernardo Perrotto, vetraio altarese, Estratto dal "Giornale economico", Venezia 1950, pp. 35-36; J Barrelet, op.cit. p. 83; J. Barrelet, Un virtuose de la Verrerie au temps de Louis XIV: Bernard Perrot, in Connaissance des Arts, 78, agosto, 1958; A. Gasparetto, Il vetro di Murano dalle origini, Venezia, 1958, pp.170-171.W.A. Thorpe, A History of English and Irish Glass, London, 1929,I, pp.142-195;H.Newmann,The Dictionary of Glass, London, 1977, pag.192.
15.W.A.Thorpe, I, pp. 119-124; Gasparetto, op. cit., p.109.
16.La piazza è una formazione o squadra di vetrai, di cui ognuno, nel proprio ruolo, contribuisce alla fabbricazione di un oggetto. La piazza, per gli articoli da laboratorio, era composta da maestri, terzi, puntellatori o "inruccatori" e garzoni.I maestri si dividevano in soffiatori, i quali davano la forma all’oggetto con il soffio, ed apritori, i quali modellavano la bocca dei vasi e dei contenitori in genere, "aprendola", come suggerisce il termine. I "terzi" estraevano dal forno, con la canna, la quantità prestabilita di vetro, che portavano ai maestri. Il puntellatore attaccava l’oggetto sul fondo, con il puntello- canna massiccia di vario diametro- e il maestro lo staccava dalla canna.Quindi il puntellatore ne scaldava la parte superiore e lo porgeva all’apritore che ne modellava la bocca.I garzoni manovravano gli stampi e portavano gli oggetti finiti in tempera per la ricottura.17.Mss. inediti di Elso Brondi. Agenda 1950.18.Massa di vetro arrotondata con all’interno la pallina soffiata.19.Arnese composto da due tavole o placche di grafite unite da una cerniera.20.Parte cilindrica forata nella quale passa il gambo della parte superiore del Kipp.21.Grosso disco di ghisa montato su una base orizzontale e rotante sull’affusto con acqua e sabbia.22.Marmorizzare: far scorrere il vetro sulla placca (anticamente marmo) nei due sensi,per dare una forma al vetro.23.Bardelle, prolunghe parallele del banco del vetraio sulle quali si fa ruotare la canna, quella di destra vicino al vetro caldo è protetta da un supporto di ferro.

Costantino Bormioli, Lavorazione Artigiana Vetro - P.IVA 01317860094
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